Siderurgia
Sintesi storica delle attività minerarie e siderurgiche nei secoli XVIII – XIX in Val Cavargna
L’utilizzo dei giacimenti di ferro in Val Cavargna, attraverso i secoli, è tuttora testimoniato dalla presenza di gallerie, cunicoli di miniera, spiazzi, fornaci all’aperto e edifici ad esse collegati.Dopo le prime esplorazioni, avviate nel 1771, sia dal Polastri, patrizio milanese, sia dalla famiglia Campioni, commercianti di carbone di legna provenienti da Varenna, spinti dagli incentivi governativi, iniziano le coltivazioni di alcune miniere di ferro:
BUBEGNO (già coltivata in passato) e VAL CALDERA a S. Nazzaro, MEZZANO a S. Bartolomeo, con investiture al Polastri.
PIAZZA MORANDA a S. Bartolomeo con investitura ai Campioni.
Nel 1783 il Polastri, divenuto conte per meriti siderurgici, avvia a Marda di S. Nazzaro il primo forno fusorio della valle, di tipo bergamasco, a pianta quadrata, con annessa fucina con maglio, questa località successivamente venne chiamata “Forni vecchi”, una volta cessato l’utilizzo primitivo e trasferito l’impianto fusorio e di raffinamento, a Ponte Dovia (Carlazzo) e chiamato “Forno nuovo”.Nello stesso luogo, nel 1787 il Polastri avvia un secondo forno, di tipo norvegiano a pianta circolare, costruito e fatto funzionare durante le fusioni, da Agostino Parietti, maestro di forno, specializzatosi in Carinzia.
Nel 1787 tutte le attività minerarie e siderurgiche della Val Cavargna sono cedute, dal Polastri che si ritira, ai Campioni, già titolari delle miniere di Piazza Moranda (S. Bartolomeo) e della Gaeta, o Sasso Rancio (Nobiallo), nei pressi del Lago di Como.
Dopo il passaggio del travaglio del ferro ai Campioni, nel 1809 viene indicato l’avvenuto trasferimento del forno fusorio da S.Nazzaro a Ponte Dovia, dove l’attività siderurgica prosegue parallelamente al forno fusorio, con annesse fucine con maglio, di Cardano (Grandola), che utilizza il minerale della Gaeta o Sasso Rancio (Nobiallo), trasportato via acqua sino a Menaggio. Durante i governi francesi le fucine di Ponte Dovia e di Cardano producono proiettili d’artiglieria (palle da cannone) necessari alle battaglie napoleoniche.
Nel 1832 i Campioni si ritirano e nel 1835 subentra la ditta “Rubini, Falck, Scalini e c.” di Dongo, con una nuova investitura concessa solo nel 1845. Nel 1864, la ditta divenuta “Rubini e Scalini”, ottiene il decreto di rinuncia delle miniere della Val Cavargna e della Gaeta o Sasso Rancio, già abbandonate da qualche anno.
Si conclude un periodo della storia delle miniere e della siderurgia in Val Cavargna.
Descrizione di una miniera, degli impianti di un forno fusorio e di una fucina grossa
Dai più lontani tempi della storia le valli di montagna sono state esplorate per scoprire miniere di ferro e per questo frequentemente in alcune valli alpine sono ancora presenti testimonianze dell’estrazione e della lavorazione del ferro, come le esistenze della Val Cavargna.
All’interno di una miniera nei tempi passati l’attività lavorativa comprendeva squadre non molto numerose di 5 o 6 lavoranti, alcuni erano minatori, detti anche canopi, addetti allo scavo, alcuni portini, che trasportavano all’esterno il minerale. Le gallerie erano armate con sostegni di legno e l’illuminazione a candele o lucerne con l’olio di noce. Il lavoro proseguiva, lungo il filone del minerale con lo sparo delle mine, dopo l’introduzione della polvere da mina verso la fine del Seicento. Dopo una prima cernita il minerale era sottoposto all’arrostimento, per togliere alcune impurità, operazione eseguita nelle reglane,fornaci all’aperto che utilizzavano la legna. Prima di essere trasportato al forno fusorio, dopo l’arrostimento, il minerale veniva cernito ancora e sminuzzato in pezzi grandi come una noce, o un uovo, lavato e lasciato stagionare, esposto agli agenti atmosferici.
Il forno fusorio era il perno dell’attività siderurgica e il maestro del forno, la figura principale, con lui lavorava manodopera specializzata, oltre ai trasportatori. Nella seconda metà del Settecento per migliorare il rendimento della lavorazione del ferro nella Lombardia Austriaca, si era ritenuto necessario di modificare i forni di tipo bergamasco, con quelli di tipo norvegiano, a pianta circolare, che facevano risparmiare combustibile, il carbon di legna, e miglioravano la produzione.
I forni funzionavano per brevi periodi di sei, otto mesi a causa della scarsità del minerale, del carbon di legna e dei problemi del ristagno, difficoltà di vendita, per mancanza di strade e per i prezzi più alti rispetto ai prodotti della Repubblica di Venezia.Il ferro grezzo, o ghisa, prodotto dal forno fusorio, passava alle fucine grosse per essere raffinato e ridotto in ferro dolce, o ladino.
La fucina grossa, comprendeva un focolare in cui si rifondeva il ferro grezzo per togliere le scorie della fusione e renderlo duttile, uno o due mantici per convogliare l’aria sul fuoco e azionati dalla ruota idraulica, che muoveva anche il maglio, composto da un grosso martello, o battente per percuotere il ferro da lavorare.
A ogni fucina grossa era solitamente annessa una o più fucine sottiladore, in cui il ferro raffinato veniva battuto a un maglio più piccolo, per ridurlo a ferro comune e per fare badili, zapponi, ferri da taglio e altri prodotti. Le fucine per fabbricare i chiodi erano dette chiodarole.
Un maestro di forno: Agostino Parietti
I minatori vivevano un’esistenza pesante e anche pericolosa, le loro condizioni economiche erano piuttosto misere, anche perché la paga era in parte o del tutto in generi alimentari, così che non riuscivano a risparmiare, anzi tendevano ad indebitarsi.
Una figura particolare, nel mondo della siderurgia, era il maestro di forno che coordinava e controllava tutta la lavorazione della fusione del minerale, restando ininterrottamente presso il forno per tutto il periodo del suo funzionamento, sei, otto mesi.
Di uno di questi specialisti sono stati ritrovati diversi documenti negli archivi storici, che raccontano la sua vita. Originario di Bosco, Pieve Valtravaglia, Agostino Parietti, giovanissimo nel 1784 aveva dichiarato al Delegato alle Miniere della Lombardia Austriaca, Padre Pini, di essere “vogliosissimo di andare ad istruirsi in Siria o Carinzia”, tanto da rinunciare a lavorare per essere pronto a partire. Padre Pini lo assegna agli impianti di Treybach in Carinzia, dove il Parietti rimane per un anno ad apprendere l’arte del fonditore del ferro, imparando il tedesco degli operai.
Il suo contratto di lavoro con i fratelli Campioni prevede l’attività ai forni, durante il periodo della fusione, per tre lire il giorno, per circa sei mesi l’anno, per il tempo rimanente deve seguire i servizi alle miniere, ricevendo vitto e lire venti il mese.
In una sua supplica per ottenere un annuo assegno dalla pubblica amministrazione, quale premio dei servizi da lui prestati, dichiara “ di essere stato istruito presso la fucina di Treybach, dove si era applicato con indefessa e instancabile diligenza per imparare la fusione del ferro, divenendo abile. Ritornato in patria, senza bisogno di altro maestro, aveva costruito in Val Cavargna un nuovo forno di tipo norvegiano, poi avviato sotto la sua direzione e successivamente ne aveva costruito un altro, sempre nel 1787, a Cardano, Grandola..”
Dopo tante vicissitudini l’annua gratificazione di 100 fiorini viene finalmente erogata solo nel 1794. Ma dopo l’arrivo dei vittoriosi francesi il Parietti deve nuovamente implorare la nuova amministrazione dichiarando che “ era stato impegnato al loro servizio e delle armate, nel fondere palle da cannone e oggetti d’artiglieria”.
Da documenti di arido contenuto amministrativo si sono potuti cogliere importanti aspetti della vita di un maestro di forno, dal suo apprendistato all’estero, dalle sue prime esperienze, fino al plauso ed ai riconoscimenti economici dei responsabili dell’economia siderurgica, ma soprattutto della famiglia Campioni, ai quali il Parietti dedica, per molti anni, la sua appassionata attività disponibile, oltre all’impegno professionale, ad eseguire fedelmente particolari incarichi di fiducia.
Per approfondire:
Il travaglio del ferro in Val Cavargna e dintorni”, a cura di Giorgio Grandi, Associazione “Amici di Cavargna”, Besana B.,2004